Gli assilli di Saggina

 

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                                              GLI ASSILLI DI SAGGINA

 

             

                               Maurizio Mazzotta

 

 

 

Saggina è una bambina molto saggia, per questo ha il soprannome di Saggina. Ha dieci anni, alta e magra come le graminacee, e i capelli hanno il colore del grano. Spesso dice cose assennate. Il padre, un botanico, la chiama così perché veramente la sua bambina ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee, il cui fusto sottile è pieno di midollo. Saggina ci osserva, curiosa, poi con i suoi quesiti “ci mette allo specchioâ€, praticamente ci fa meditare sui nostri comportamenti: modi di dire, gesti, mimiche, posture; sul nostro modo di porci in relazione con gli altri, con noi stessi, con gli oggetti.

 

 

Incontri ravvicinati dell’ultimo tipo

 

 

 

-Papà, ascolta questo racconto del dr Mauro. Gli ho chiesto di registrarlo per me, così posso fartelo ascoltare. Ha cominciato dicendo che è stato in contatto con un alieno e che aveva capito subito che il suo linguaggio e il suo pensiero coincidevano. L’alieno diceva quello che pensava e pensava quello che diceva. Comunicava pensando. Insomma, il dr Mauro diceva che quando l’alieno lo guardava lui sapeva già quello che stava pensando. Ed era in grado di sapere quello che pensava il signor Mauro nello stesso momento in cui Mauro lo pensava.-

 

-Ma che stai dicendo, ti prendeva in giro…-

 

-Papà ascolta e non giudicare prima di sapere …Io adesso accendo il registratore, ed è il dr Mauro che racconta.-

 

-Un giorno questo amico alicno (lo conoscevo da poche settimane e siamo entrati subito in contatto, un’esperienza emozionante!) rivolto a me pensa: “Non vi capisco più, non mi sembra che ci sia coerenza tra ciò che voi terrestri avete nella testa e ciò che poi esprimete parlando. Le prime volte mi sono felicitato con voi, trovavo meravigliosa la possibilità di pensare e poi di esprimere il pensiero pensato. In seguito ho cominciato a temere di non essere in grado di leggere la vostra mente, che insomma il vostro modo di pensare fosse differente dal mio, che fosse così particolare da risultare di difficile comprensione per quelli del mio mondo. Col passare dei giorni mi è sembrato di capire che la spiegazione potrebbe essere semplicissima, però per certi aspetti a me resta incomprensibile, perché assurdaâ€. Qui ha fatto una pausa di pensiero, mi ha guardato come uno che non sa cosa dire, teme di offendere, non osa. 

 

-Così io l’ho incoraggiato: “Pensa, pensa tutto, se posso ti spiego. Cosa hai capito?â€. Allora lui, mortificato, timoroso, reticente, alla fine: “È possibile che voi terrestri abbiate in mente una cosa e quando parlate ne dite un’altra, completamente diversa, o addirittura opposta?â€. “Ah certamente†ho risposto con noncuranza (io posso permettermi di parlargli, tanto per lui è lo stesso). “È normale, per noiâ€. Poi vedendo che mi guardava spalancando gli occhi da far paura (se li spalanca sembra proprio che se ne vogliano andar via), ho aggiunto: “Scusa, devo spiegarti un bel po’ di coseâ€.

 

-Per potere individuare le cose importanti su di noi da riferirgli, da tenere in considerazione, quasi un vademecum, ho fatto uno sforzo incredibile: mi sono messo, con tutta la mia terrestrità, dalla sua parte, per risolvere un problema già grosso per noi, figurarsi quanto lo sia per questi alieni che vengono da un mondo dove comunicare è quanto di più trasparente ci possa essere. 

 

- Ho cominciato col dirgli che noi terrestri non abbiamo soltanto il problema delle lingue parlate differenti, che sono una barriera a volte insormontabile, noi abbiamo prima di tutto una complessità -chiamiamola così - di pensiero per cui non sappiamo spesso nemmeno noi cosa vogliamo; secondo, se pensiamo che una cosa è brutta diciamo che è bella e viceversa, mentendo sapendo di mentire, per una infinità di  motivi, che ti elencherò un’altra volta; terzo, oltre che con la lingua parlata ci esprimiamo con altri linguaggi, addirittura con tutto il corpo. E forse questo è un bene, 

 

-Così l’ho portato al lago, ci siamo seduti sugli aghi di pino a mezza costa di una dolce collinetta, di fronte c’era il sole che nascosto tra due monti terminava un acquerello mozza fiato. Lui mi pensa: “Quanto siete fortunati!â€. “Già!†dico io. E lui insiste a pensare: “Non solo per questo panorama, per tutto voglio direâ€. Così io capisco che intende ciò che abbiamo e come siamo, e mi viene di concludere che siamo in pochi però a sapere quanto siamo fortunati. Naturalmente non gliel’ho detto, ma lui ha captato le mie meditazioni e cioè su quanto distruggiamo le nostre fortune. 

 

-Ho cominciato in questo modo: Quando un terrestre ti pensa davanti e si mette a parlare, se cogli qualcosa che non va ti prego non pensare male, sappi che quello di dire bugie è un nostro vezzo, infatti siccome noi ci esprimiamo contemporaneamente con più linguaggi possiamo permetterci il lusso di giocare con le verità. Lui mi guarda estasiato: “Altri linguaggi!?â€, avverto che pensa meravigliandosi. 

 

-Altri linguaggi sì, altri linguaggi. Mentre parliamo, esprimiamo differenti intonazioni con la voce, diverse qualità di suoni, per esempio le parole sono come strozzate quando ci arrabbiamo. Se vogliamo sottolinearle, ci soffermiamo su di esse. E ciò è poca cosa. Sono linguaggi per così dire di supporto, sostegno, abbellimento, insomma completano il parlato. Linguaggi veri e propri sono invece i movimenti e le posizioni che assumiamo con il corpo; i gesti con la testa, le braccia, le mani; le espressioni del viso, non solo i movimenti dei muscoli attorno alla bocca e agli occhi, anche dentro gli occhi. Le pupille sono straordinarie!  Ecco devi imparare a comprendere questi linguaggi, scoprirai che in fondo anche noi siamo coerenti. Sono linguaggi per certi versi spontanei; con questi altri modi di esprimere ciò che pensiamo e proviamo mettiamo da parte il vezzo di dire bugie. Quando un terrestre ti riferisce un suo problema, una situazione drammatica che sta vivendo, osserva questi linguaggi scoprirai perfetta coerenza. 

 

-A questo punto lui mi pensa davanti così: “Va bene! Questo per sapere quando un terrestre è coerente, ma quali sono gli argomenti, i contenuti, le situazioni durante le quali in particolare giocate con le verità e le bugie?â€. 

 

Io lo guardo e scuoto la testa su e giù con la faccia dispiaciuta. Avverto che lui sta pensando che mi sforzerò di essere coerente. “Sì, non è una bella cosa e sento il dovere di avvisarti. Fai attenzione a ciò che il terrestre può volere da te, è il momento in cui è portato a non essere coerente. Ti sarà facile captarlo dal momento che gli leggi nella testa. Considera il nostro vezzo…â€. “No, un momentoâ€, fa lui e mi blocca pensiero e parlato. “Vezzo o non vezzo è molto brutto. Voi terrestri anche se non vi leggete nella testa, sapete di questo vezzo e potete quindi valutare ciò che dite, ma se qui capita un alieno che comunica in altri modi, che non vi legge in testa come me, cosa gli succede? Non voglio pensarciâ€. Una pausa e poi ha ripreso: “Non voglio pensarci non voglio pensarciâ€. Un paradosso! Mi è venuto da sorridere: lui pensa che non vuole pensare… poi ho capito che era una cosa seria. Man mano che pensava: “Non voglio pensarciâ€, il pensiero si affievoliva, e anche lui insieme al pensiero. Lo guardavo preoccupato e impotente e quando è diventato del tutto trasparente ho capito che se ne stava andando. Per sempre.


 

 

 

 

                       



   

 

 

                            GLI ASSILLI DI SAGGINA

 

              Maurizio Mazzotta

           

 

Saggina è una bambina molto saggia, per questo ha il soprannome di Saggina. Ha dieci anni, alta e magra come le graminacee, e i capelli hanno il colore del grano. Spesso dice cose assennate. Il padre, un botanico, la chiama così perché veramente la sua bambina ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee, il cui fusto sottile è pieno di midollo. Saggina ci osserva, curiosa, poi con i suoi quesiti “ci mette allo specchioâ€, praticamente ci fa meditare sui nostri comportamenti: modi di dire, gesti, mimiche, posture; sul nostro modo di porci in relazione con gli altri, con noi stessi, con gli oggetti.

                          

                 

                     "Ci vediamo"

 

 

E l’altro giorno Saggina ha chiesto al padre:

 

-Papà, perché molte persone, quando si salutano, dicono “Ci vediamoâ€, pur sapendo che non si incontreranno mai più?-

 

-Hai ragione, le ha risposto il padre, ho meditato anch’io su questo che chiedi.

 

Qualche giorno fa ero in una città sconosciuta e in un momento di ozio. Mi divertiva la consapevolezza che tutto quello che avrei visto sarebbe stato davanti ai miei occhi una volta sola: tutto sarebbe esistito solo in una frazione di secondo. Non c’era alcuna probabilità che avrei rivisto quella strada, quel palazzo, quell'edicola. Provavo la sensazione stordente del fugace, del contingente, dell’effimero: quella città l’avrei dimenticata, non sarebbe più esistita.

 

Attraversai la strada tagliando il traffico e qualcosa guastò la mia euforia. Era qualcosa di familiare che mi veniva incontro da luoghi remoti della memoria: un tutt’uno di occhi sopracciglia naso e fronte. Man mano che il volto si avvicinava, si condensava su quegli occhi un aggrottare di sopracciglia: era evi­dente che gli facevo lo stesso effetto perché quegli occhi mi fissavano.

 

“Rubini!†esclamai nello stesso istante in cui lui pronunciava il mio nome ed eravamo l’uno di fronte all’altro. Tutti i miei pensieri svanirono di colpo, proprio come gli oggetti che avevo percepito fino a quel momento: curioso destino che coinvolgeva gli eventi e le meditazioni su quegli stessi eventi.

 

“Come mai qui?â€

 

“Come mai tu? Questa è la mia città!â€.

 

Rubini era un compagno di liceo vivo nella memoria insieme agli altri della classe. Non ci vedevamo da più di trent’ anni.

 

“Ti ho riconosciuto subito!â€

 

“Anch' io! A parte i colori non sei cambiatoâ€

 

“Cosa fai, come stai?â€

 

“Vivo qui da un pezzo, venticinque anni, credo. Ho uno studio legale proprio qui dietro. E tu …â€

 

-Il dialogo terminò più o meno di colpo. Con una caduta repentina della tensione che ci aveva portato inizialmente addirittura all'abbraccio. Ci scambiammo poche informazioni sulle nostre vite e su quelle degli altri compagni di cui sapevamo pochissimo. Quando gli proposi di prendere un aperitivo­, e lui rispose che non poteva trattenersi neppure un secondo per un affare urgente, ebbi la certezza che sarebbe svanito come era apparso. Rappresentavamo una fase della nostra vita, qual è l’adolescenza ricca di scoperte. Per questo l’abbraccio iniziale. A questo punto però lui disse la frase che non doveva dire. Quando gli tesi la mano (tutti e due evitammo con “naturalezza" l'abbraccio), disse: “Ci vediamoâ€.

 

-Questa frase occupò tutto il resto della mia passeggiata, piccola mia. Per questo credo di avere qualche risposta alla tua domanda.

 

Il problema era: come si può dire una frase così in un’occasione del genere. Rubini sapeva che quasi sicuramente non ci saremmo incontrati più. Era un suo modo di dire? No, questa spiegazio­ne non mi soddisfaceva. Decisi di cercare l’origine di questa modalità di saluto.

 

Ipotizzai che all’origine avesse il significato di un augurio. Due amici o compagni di un tempo che

un tempo che si augurano di incontrarsi di nuovo. Avevo l’impressione invece che la frase di Rubini contenesse un significato opposto.

Quel semplice “ci vediamoâ€, poteva essere cortesia? Cortesia autentica sarebbe stata una frase come: “Mi ha fatto piacere vederti. So che è improbabile un altro nostro incontro perciò ti auguro buona fortunaâ€. Questa può essere considerata una frase cortese convincente. Gli avrei augurato anch’io buona fortuna.

No, conclusi, era un intercalare, senz’altro buffo. L’intercalare è tipico dell'impaccio. 

Ma la domanda forse era un’altra: perché ad alcune persone sembra difficile affrontare e risolvere un problema in fondo così semplice, quello di accomiatarsi definitivamente da una persona? È veramente così arduo dire una frase come quella che augura buona fortuna? È il definitivo che fa paura? Se è così, si comprende perché dal definitivo si fugge, ma ciò significa pure incapacità di affrontare problemi relazionali di primo livello.

Tutte ipotesi, da verificare naturalmente. Quanto a Rubini, lui probabilmente si era espresso con una frase all’apparenza paradossale, ma di fatto in due secondi mi aveva detto, magari senza una piena consapevolezza: “Non ti dico addio e buona fortuna perché non ne sono capace, e poi non mi importa gran che, perciò ti mando a quel paese facendoti credere che mi piacerebbe vedertiâ€.

Cara Saggina mia, in molte persone c’è in fondo la solita stupida sottovalutazione dell'altro, che come un boomerang torna al mittente e lo rende ridicolo.

 

 



 

 

                                                 Gli assilli di Saggina

 

Maurizio Mazzotta

 

Saggina è una bambina molto saggia, che per questo ha il soprannome di Saggina. Ha dieci anni, alta e magra come le graminacee, spesso dice cose assennate. Il padre, un botanico, la chiama così perché veramente la sua bambina ha il cervello pieno di pensieri come le graminacee, il cui fusto sottile è pieno di midollo. Dunque non ha niente a che vedere con le scope.

 

L’accentuazione: altro linguaggio…ma quanti per esprimerci!

 

-L’altro giorno papà, quando hai finito di parlare dei linguaggio verbale, mi hai detto che c’era ancora da dire, che dovevo andare dal dr Mauro, ma il dr Mauro  Ã¨ fuori per un convegno. Tocca a te. È importante, io devo sapere, papà.

  -Hai ragione, dolcezza mia, è rimasto il “vocaleâ€, meglio: si dice “prosodiaâ€,          ossia gli accenti ritmici nelle lingue. Ascolta e scoprirai cosa accade alle frasi. Ah! Vicende delle parole, a volte delle frasi per le conseguenze in chi ascolta. Comincio con questo esempio.

“Una vecchia porta la sbarraâ€. Se si legge questa frase senza soffermarsi su nessuna delle parole, può accadere che due persone intendano due “cose†differenti, e cioè 

1: che una donna anziana porta una sbarra di ferro; 

2: che una vecchia porta, cioè un infisso di legno deteriorato, sbarra la strada per uscire o per entrare in una stanza. 

-Se si vuole evitare l’equivoco si può vigilare sul nostro messaggio e precisarlo mediante i tratti prosodici, che sono l’accentuazione, l’intonazione, la durata, con cui esprimiamo la parola, cioè il segmento della frase che ci interessa. Si chiamano appunto “tratti soprasegmentaliâ€. Noi comunichiamo utilizzando, quando è il caso, questo ulteriore linguaggio che ha lo scopo proprio di evitare equivoci. Gli attori a teatro o al cinema lo utilizzano per emozionare; anche noi a volte, meno consapevolmente, per comunicare le nostre emozioni, più spesso per farci capire.

Se si vuole precisare che una donna anziana porta la sbarra, ci si sofferma sulla parola “vecchiaâ€, che è un segmento della frase. 

-I significati possono essere tanti quante sono le parole, basta soffermarsi un tantino, o modulare la voce su quella parola, oppure porvi un accento. Se voglio precisare che parlo di una vecchia e non di due, per sottolineare quanto questa vecchia sia forte, mi soffermo su “Unaâ€. E così via. “Vecchiaâ€: attenzione! Si tratta di una vecchia, non di una giovane; “Portaâ€: caso mai qualcuno stia pensando che la sbarra venga trascinata; “Sbarraâ€: porca miseria una sbarra di ferro, non una piccola trave di legno! E così se dico la stessa frase a quattro persone diverse facendo emergere ogni volta una delle quattro parole, coloro che ascoltano percepiscono differenti sfumature di significato.

-In conclusione, se vedi una vecchia che porta una sbarra e vuoi riferirlo parlando al cellulare alla mamma, stai attenta a come ti esprimi. La mamma potrebbe capire altro e pensare che sei  prigioniera da qualche parte, perché una porta ti sbarra la strada e quindi, preoccupata, allerterebbe pompieri, polizia, carabinieri.

-Si tratta dunque di un altro linguaggio che si aggiunge al linguaggio verbale, spesso sostenuto pure dalla mimica e dalla gestualità, per precisare i significati ed evitare equivoci, ma lo utilizziamo anche, come già detto, quando siamo emozionati e vogliamo comunicare le nostre emozioni. 

Mi viene in mente l’avventura dell’altra notte in città, quando tornavo a casa a piedi e ti voglio comunicare la mia emozione, raccontare la paura e quello che mi è successo, che dà la misura della gravità dell’evento. Rincasavo a piedi dunque, giro l’angolo e “cinque grossi cani mi vengono incontroâ€.  â€œCinqueâ€, non uno soltanto, credimi… una paura! “Grossiâ€, non erano mica cinque cagnetti, erano grossi, chiunque avrebbe avuto paura.  â€œMi vengono incontroâ€, non hanno cambiato strada, continuavano a venirmi incontro. Insomma sì, Saggina, la verità: io me la sono fatta addosso!… Ah il randagismo! È il vero problema. Ho sottolineato “Veroâ€, perché tutti gli altri che abbiamo sono niente a confronto, infatti se l’Italia va a scatafascio, figlietta mia,  non ce la facciamo mica sotto. Letteralmente voglio dire, Saggina… 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



 

 

                                GLI ASSILLI DI SAGGINA

 

              Maurizio Mazzotta

           

 

Saggina è una bambina molto saggia, per questo ha il soprannome di Saggina. Ha dieci anni, alta e magra come le graminacee, e i capelli hanno il colore del grano. Spesso dice cose assennate. Il padre, un botanico, la chiama così perché veramente la sua bambina ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee, il cui fusto sottile è pieno di midollo. Saggina ci osserva, curiosa, poi con i suoi quesiti “ci mette allo specchioâ€, praticamente ci fa meditare sui nostri comportamenti: modi di dire, gesti, mimiche, posture; sul nostro modo di porci in relazione con gli altri, con noi stessi, con gli oggetti.

                          

 

       Chi osserva osa pensieri profondi. 

 

 

     -Tu pensi pensieri profondi come e più di tante persone: sei una che osserva; non ti sfuggono i gesti e le inflessioni della voce delle persone che ti stanno di fronte, e questo ti porta a capire la gente sempre più nel profondo. Il comprendere è alla base dei pensieri profondi.-

 

-In genere comincio io papà-

-Bèh stavolta comincio io. Tu sai chi sei tu per me, no?-

-Sì, papà-

-Chi sei ?-

-L’amore tuo, papà-

-E dunque penso continuamente a te e questa volta ho meditato  a lungo. Ascolta.-

 

-Ti ho scoperto che commentavi con gesti e mimica il modo di esprimere una sillaba del giornalista in TV o gli scatti della sua testa, che accompagnava le frasi o le parole che egli voleva sottolineare. Ma i tuoi commento non erano presa in giro: ti davi conferma che frasi e gesti non ti erano sfuggiti. La televisione permette esercizi del genere. Hai ipotizzato la boria di certi personaggi, imitando il particolare protendere del petto insieme a quella leggera inclinazione della testa che consente di guardare l'interlocutore come dall'alto; e l'impaccio del timido, le cui parole si interrompono in gola. E ancora, rivelando una competenza che non posseggono gli adulti, troppo abituati a concentrarsi sul verbale, non ti sei lasciata irretire dal parlato, e hai aggrottato le sopracciglia per un tono eccessivo, chiara enfasi utilizzata per convincere l'ascoltatore o per convincere se stessi. Hai pure notato le domande distratte dell'intervistatore all'intervistato. Hai afferrato la falsità della situazione in cui i due si rivolgevano a milioni di persone.

Io sono soddisfatto, Saggina, perché vedo che tu vai al di là delle parole, o meglio al di sotto, come se le scalzassi con la leva dei tuoi occhi attenti per verificare se hanno radici nella mente o nel cuore di chi parla. È la prima operazione che bisogna compiere nell'ascoltare l'altro. Cosa ci potrebbe accadere se recepissimo come vero un messaggio falso? La nostra risposta non avrebbe senso e, peggio! non lo sapremmo nemmeno. Così tu ti alleni, e noti persino alcune espressioni affettate, alcuni toni compiaciuti, un modo di pronunciare la ‘esse’ della mamma al telefono. Questa tua capacità mi dà tanta sicurezza, mi fa pensare subito (e ti vedo mentre atteggi le labbra ad imitare) che sveli i segreti dei tuoi insegnanti e dei tuoi compagni. Sono certo che tu conosci di loro cose che loro stessi non sanno.

 

Osservare l'altro porta a comprenderlo. Definendo in qualche modo il comportamento, si prende coscienza sia di quel comportamento sia della nostra capacità di osservare e comprendere. Il primo livello di definizione è il più semplice e nello stesso tempo il più preciso: imitare, proprio come fai tu. È il più semplice perché è immediato e non occorre avere informazioni sui comportamenti e sui loro significati, sui caratteri e su come si manifestano, né tantomeno occorre saperli analizzare. È il più preciso in quanto si definisce quel comportamento e non altro; si sfiora soltanto la personalità di chi lo manifesta.

Si corre un rischio, se non si è attenti, se l'imitazione diventa automatica e quindi un'abitudine. Il rischio è che quel comportamento diventi un nostro modo di esprimerci. Per evitare che questo accada conviene in primo luogo imitare ma... non troppo; essere vigili, chiedersi se quel comportamento ci piace oppure no. Nel primo caso, lasciamoci andare: impariamolo. Nel secondo caso, se ci diverte, dobbiamo caricare la nostra imitazione di un forte atteggiamento di rifiuto. Operazione difficile perché bisogna mantenere il rifiuto limitato a ciò che abbiamo appena osservato di quella persona e non alla persona. 

In ogni caso conviene passare a una seconda operazione di definizione, a una vera e propria definizione verbale, anche questa rischiosa in quanto tende a etichettare. Dare un'etichetta può avere conseguenze negative: la parola non è precisa, può non corrispondere alla realtà. Un conto è imitare i gesti del petto proteso e della testa inclinata, e un conto è dire che quella persona è boriosa: potrebbe non esserlo. Proviamo a definire verbalmente il comportamento così come si manifesta. Per esempio: protendere il petto, inclinare la testa dall'alto in basso. Dopo una definizione di questo tipo diventa lecito approfondire le conseguenze di un tale comportamento, e quindi quali possono essere le risposte dell'altro.  Possiamo per esempio ipotizzare conseguenze come: una persona che si comporta così rischia di apparire boriosa, e concludere eventualmente: a me non piace apparire borioso.

Con questo livello di definizione passiamo dall'osservazione dell'altro all'osservazione di noi stessi. Ci riescono in pochi. Dalla definizione dei comportamenti che non vogliamo assumere a quelli che vorremmo assumere, dal rifiuto a mostrarci in un certo modo all'impegno di apprendere modalità di espressione scelte con una certa libertà e comunque in piena consapevolezza.

Chi osserva in questo modo: attento, consapevole, critico, e prova a definire ciò che osserva, si imbatte in problemi, in questioni che trattano dell'uomo e delle sue qualità. Chi osserva in questo modo finisce per meditare, e l'analisi, sempre più approfondita, lo porta a sfiorare soluzioni idonee a migliorare se stesso, il suo modo di agire e interagire.

 

 


 

 

 

 

                                                               GLI ASSILLI DI SAGGINA

               

                          Maurizio Mazzotta

 

Saggina è una bambina molto saggia, per questo ha il soprannome di Saggina. Ha dieci anni, alta e magra come le graminacee,  e i capelli hanno il colore del grano. Spesso dice cose assennate. Il padre, un botanico, la chiama così perché veramente la sua bambina ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee, il cui fusto sottile è pieno di midollo. Saggina ci osserva, curiosa, poi con i suoi quesiti “ci mette allo specchioâ€, praticamente ci fa meditare sui nostri comportamenti: modi di dire, gesti, mimiche, posture; sul nostro modo di porci in relazione con gli altri, con noi stessi, con gli oggetti.

 

Narciso e la conoscenza di sé

 

- Papà ho letto di Narciso

- E allora? 

- È triste, una storia triste

- Non la ricordo bene, raccontamela.

E Saggina comincia, occhi tristi puntati su quelli del padre. 

- Il regno della Natura era il regno delle ninfe: ninfe delle piante, ninfe delle acque, ninfe dei monti. Tra le ninfe dei monti, abitatrici di montagne e valli, burroni e forre, c’era Eco, una ninfa bellissima e dolce.  Eco amava Narciso, figlio del fiume Cefiso, ma Narciso non sapeva rispondere al suo amore, anche perché non lo conosceva, proprio non sapeva cosa era l’amore… e la bellissima Eco pianse tanto che si consumò per il dolore e di lei non rimase altro che la voce. Non è una storia triste, papà?

- Sì, è triste. (pausa) Ma tu cosa sai dell’amore?

- Abbastanza papà, per quello che vedo tra te e la mamma o che mi dite. Anche dai libri. Comunque ascolta, perché la storia di Narciso non finisce così. Doveva essere punito ed è questo che non capisco papà. Se Narciso non sapeva nulla dell’amore perché punirlo? Invece Afrodite, dea dell’amore, non sopportò l’incapacità di Narciso di rispondere ai richiami d’amore e volle punirlo. Così quando un giorno Narciso si accostò a una fontana sull’Elicone per dissetarsi, scorse la sua immagine. Lui che non conosceva l’amore, lo scoprì quando si vide: si innamorò della sua immagine riflessa nello specchio dell’acqua, ma non poteva raggiungere se stesso, oggetto del suo amore, si addolorò, pianse e, come era accaduto ad Eco, si consunse. E lì sulla riva del fiume nacque un fiore che prese il suo nome, il narciso. Il fiore è simbolo di una bellezza senza cuore; “narciso†è una persona fatua e vanesia che ha il cuore rivolto solo a se stesso. Ora dico io papà, una persona così non ha colpe se nessuno si è preso cura di insegnargli a non avere il cuore rivolto solo a se stesso. Questa storia la capisco se si rivolge ai genitori, agli educatori insomma. Io dico: quei poveri ragazzi, Narciso ed Eco, non si sono amati per colpa degli adulti (Afrodite non ne parliamo proprio, era stronza papà). Questa storia mi rattrista, ma ora che ci penso mi fa incazzare. -

Il padre ancora la sta guardando sbalordito, poi ingoia a vuoto, infine, con voce roca dall’emozione:

- Hai ragione (intanto pensa…questa figlia mia… ha dieci anni!...). Poi comincia a parlare dapprima lentamente, quindi si dà forza ricorrendo a citazioni, come fanno gli adulti quando non sanno cosa dire.

-Vedi Saggina…Avremmo potuto, da secoli, lasciarci guidare da quel “conosci te stesso†che nelle lingue, greca e latina, suona addirittura come monito, eppure chi pretende di educarci lo prende solo marginalmente in considerazione: generiche informazioni sul corpo umano, nessuna su di noi come persona, nessuna possibilità di meditare su come siamo e come ci comportiamo. Sicché usciamo da anni di classi di scuola che si succedono, da ordini e gradi di scuola, senza, o quasi, conoscerci. Perlomeno senza che nessuno si sia posto come guida affinché si realizzi il “conosci te stessoâ€. E la conquista di questo “conosci te stesso†rimane fatica per ciascuno di noi. 

Soffermarmi sulle mie sensazioni, meditare sulle mie emozioni, individuare aspetti del mio carattere, riconoscermi capace o incapace di fare; analizzare le mie aspettative per confrontarle con la realtà - la mia realtà e quella che mi circonda-, essere consapevole di come interagisco nel sociale, di cosa mi fa avvicinare all’altro, diverso e uguale: tutto ciò è una conquiste dell’adulto, e dell’adulto fortunato che abbia avuto un clima in famiglia favorevole, che abbia la sensibilità e la voglia di conoscersi e conoscere, soprattutto la possibilità di instaurare rapporti interpersonali improntati alla comunicazione e allo scambio, alle emozioni positive che ci fanno accogliere  l’altro…. Vedi Saggina mia, splendida bambina…così nasce l’affettività positiva verso sé che significa volersi bene, un accettarsi e un compiacersi di sé scevro da esagerati egocentrismi e da chiusure verso l’esterno; un volersi bene da adulto, un adulto che sa che anche gli altri hanno o possono avere motivi per volersi bene. Significa stimarsi, riconoscere i propri limiti senza drammi, le proprie capacità senza pavoneggiarsi. Comprende l’accettazione del proprio corpo - il piacersi -, l’accettazione delle proprie caratteristiche di personalità, degli aspetti che contraddistinguono il nostro comportamento; comprende l’approvazione delle proprie azioni, include le aspettative positive su di sé; si estende verso l’oggetto (interessi, motivazioni), verso l’ambiente con la voglia di fare, e verso l’altro con la voglia di comunicare, ancora di più con il desiderio di unirsi e fondersi con l’Altro. 

Se non c’è tutto questo in modo consapevole e forte,  emerge Narciso con la sola smania di mirarsi e la sua incapacità di guardarsi intorno, comunicare ed agire. Perché nessuno glielo ha insegnato, vero. E siccome i genitori sono quello che sono, ce ne stanno tanti di Narciso.

Sono quelli che quando parlano, dicono soprattutto di se stessi…e non finiscono mai e quando parli tu non ti ascoltano.

 

 

 

 



 

 

 

GLI ASSILLI DI SAGGINA

 

  

                Maurizio Mazzotta

 

               

Saggina è una bambina molto saggia, per questo ha il soprannome di Saggina. Ha dieci anni, alta e magra come le graminacee, e i capelli hanno il colore del grano. Spesso dice cose assennate. Il padre, un botanico, la chiama così perché veramente la sua bambina ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee, il cui fusto sottile è pieno di midollo. Saggina ci osserva, curiosa, poi con i suoi quesiti “ci mette allo specchioâ€; praticamente ci fa meditare sui nostri comportamenti: modi di dire, gesti, mimiche, posture; sul nostro modo di porci in relazione con gli altri, con noi stessi, con gli oggetti.

 

                                   Saper leggere - saper interpretare

 

 

 

-Papà, mi hanno detto a scuola che devo leggere alcune poesie. Non so come fare, le poesie sono… sono una cosa seria.

 

-Proprio per questo non posso e non voglio dirti nulla. Abbiamo lo zio Carlo, chi meglio di lui, è attore, anzi interprete, precisa lui stesso. Chiamalo, sarà contento.

 

Alcuni giorni dopo il padre le chiede di riferirgli cosa sta facendo con lo zio Carlo, e lei, come se stesse aspettando un tale invito, comincia a parlare e sembra proprio non avere intenzione di finire mai. Il suo volto emana raggi di luce e il padre capisce che le è piaciuto tanto andare dallo zio.

 

-Per prima cosa mi ha detto che devo studiarla, la poesia, nel senso che devo comprenderla: ciò che ha voluto dire l’autore, ciò che dicono i versi, uno per uno, quindi devo chiedermi se mi piace, se mi emoziona. Devo sapere in partenza se â€devo lasciarmi andareâ€, ha detto proprio così, come se l’avessi scritta io, ha aggiunto,  e quindi con gli scopi dell’autore. Se invece non mi piace, ma sono costretta a leggerla, allora devo leggerla stando attenta il più possibile alla dizione, al respiro, al volume della voce, che sono gli aspetti tecnici che si studiano per diventare attore. Per questo in verità -ha aggiunto- non avremmo molto tempo, ma qualcosa potrei insegnarti, ha concluso. Quante sono le poesie o è una sola?

 

-Non più di tre mi hanno detto. Eccole, zio. Le ho lette più volte e mi sembra di averle capite. 

 

A questo punto lo zio Carlo le ha prese: -Stai zitta e buona, le devo leggere e capire.

 

-Sono stata zitta e buona, ma proprio quando non ce la facevo più di aspettare, lo zio fa:

 

-Faremo finta che ci piacciono.  Non soltanto, mettiamo a parte la tecnica, poi vedremo se riprenderla, ora puntiamo a interpretarla. All’apparenza è più facile, ma dipende molto dalla tua capacità di immedesimarti nell’autore.

 

-Quando ha detto così papà, mi è piaciuto un sacco…

 

-Allora farai l’attrice? Adesso potresti leggermele?

 

-No, ho altri due giorni con lo zio, poi avrai l’anteprima e il giorno dopo sarò un’attrice, tu e la mamma sarete in platea, sì, nella palestra della scuola. Lo zio ha cominciato dicendo che siccome ho il compito di leggere, non devo imparare a memoria le poesie, che sarebbe più bello, sarei libera di muovermi non essendo ancorata al leggio. Poi di colpo mi ha fatto paura con uno sguardo all’improvviso feroce, si avvicina e dice: 

 

-Dunque avrai in mano un libro, vero?

 

-Sì certo, dico timida e impaurita, avrò in mano il libro… se devo leggere…

 

-Errore grossolano che fanno tutti, urla, non l’avevo mai visto così, papà. Poi abbassa la voce, ma l’espressione rimane dura e cattiva. Si era ammattito, papà? E riprende a dire: Ecco la caduta dell’atmosfera creata, quando si è costretti a voltare pagina, dice. Si può e si deve evitare. Perché si uccide la poesia. Ci si prepara fotocopiando le pagine che interessano, inserendole in cartelle trasparenti da poggiare sul leggio. E se la poesia è più lunga, si utilizza il retro della cartella in modo che il voltare pagina non comporta nessun intoppo. E di colpo è tornato dolce e sereno. E così ha ripreso. Vediamo ora che significa saper leggere in pubblico una poesia, ha detto mentre si metteva comodo sulla poltrona. Innanzitutto significa saper individuare le parole-chiave, cioè le parole che permettono di comprendere più facilmente ciò che vuole dire l’autore e per questo quando ci si esercita nella lettura conviene soffermarsi brevemente sulla parola-chiave per dare la possibilità anche a chi ascolta di comprendere il contenuto della lettura e ciò contribuisce a mantenere accesa l’attenzione. In questo modo si crea anche l’aspettativa. Creare l’aspettativa significa far capire che in ciò che si legge sta per succedere qualcosa, che si sta per riferire qualcosa di molto importante. Se il lettore è così bravo si accorge dal silenzio in sala che i presenti “pendono tutti dalle sue labbra†e se ci sono zanzare le sente volare. Lui le sente volare, non gli ascoltatori che sono persi in ciò che ascoltano. Qui ha fatto una pausa guardandomi con occhi dolcissimi quindi ha ripreso. Una poesia necessita di una modulazione nel tono di voce, di un volume di voce coerente con ciò che si legge e per questo bisogna entrare “dentro†al brano di lettura e immedesimarsi nello scrittore per cogliere le sfumature di significato in ciò che lui vuol dire. Se il lettore è così bravo, gli ascoltatori restano immobili e lui sente volare le mosche, che in genere sono più silenziose delle zanzare. E che dire dei moscerini, silenziosissimi? Chi legge la poesia li sente se utilizza i linguaggi del corpo, ossia se si muove nello spazio in modo misurato e a seconda di ciò che dice il brano di lettura, se evidenzia moderatamente nell’aria con braccia e mani aggettivi, verbi e sostantivi, infine se i suoi occhi occhieggiano e le ciglia si accigliano, quando ciò che si legge esige proprio occhi, ciglia e sopracciglia. Per questo si consiglia di allenare il viso a renderlo mobile nelle espressioni: ci si mette davanti allo specchio e si fanno smorfie e boccacce (non sto scherzando). Ciò è utile perché nel laboratorio sul parlare in pubblico, che faremo in seguito se ne hai voglia….

 

-Sì, ne ho voglia, mi sono precipitata a dire, papà.-

 

-Bene! I primi incontri saranno dedicati a due obiettivi che sono alla base del parlare in pubblico: gestire l’ansia e studiare le emozioni per imparare a metterle in evidenza quando occorre. Vediamo ora cosa devi fare per prepararti, ha detto mentre si alzava, prendeva un bicchierino e si versava della grappa Sarebbe la prima volta per te e dunque potresti essere presa dall’ansia di affrontare il pubblico. Una cosa banale e che sembra superflua è che la preparazione include una simulazione: leggere e rileggere per evitare intoppi nella lettura, stare in piedi avendo qualcosa che faccia da leggio, su cui appoggiare la cartellina trasparente con la poesia, avendo in mano un microfono oppure rimanendo vicino al microfono se è fisso sul leggio e soprattutto imparare ad usarlo. Tutto questo ti aiuta per il giorno in cui sarai di fronte a un pubblico.-

 

-Posso dire una cosa, zio?-

 

-Se sono immersa nella poesia che sto leggendo davanti un pubblico, come faccio a sentire zanzare, mosche e moscerini?-

 

-Sapevo che l’avresti chiesto. Domanda intelligente che stimola i discorsi teorici sull’arte drammatica, quindi sul teatro. Insomma entriamo nelle teorie che ovviamente sintetizzo. Una dice che l’attore deve immedesimarsi a tal punto da diventare il personaggio e che solo così può trascinare il pubblico; però, dicono altri teorici, rischia di trascinare anche se stesso. In questo caso non sente le zanzare, figurati i moscerini! Gli altri teorici praticamente dicono, e io sono con questi, che l’interprete deve essere empatico, che significa in sostanza “fare come seâ€. Il “come se†permette di entrare e uscire dal personaggio, significa essere consapevoli che si sta interpretando e quindi restare attenti su ciò che accade proprio mentre mostri di essere un altro. Sì proprio ti sdoppi. In questo modo non soltanto  senti i moscerini, hai anche sotto controllo ciò che succede in sala agli ascolatori e sai se li hai “acchiappati†o se invece sono annoiati e stanno pensando ad altro.

 

 



 

                                 

GLI ASSILLI DI SAGGINA

 

             

 

                  Maurizio Mazzotta

 

                 Sottovalutare l’altro

 

                 

 

 

 

    - Sottovalutare l’altro è uno degli errori più gravi che commettiamo- 

 

-Me lo hai già detto papà, tra i primi argomenti dei nostri incontri all’insegna del caffè, più esatto, al tuo caffè di mezza mattina.

 

-Beh, te lo ridico, perché voglio raccontarti quello che mi è successo dal dentista ieri pomeriggio.  Accade spesso di incontrare persone stupide proprio in quanto pensano che l’altro sia cretino, che non si accorga delle loro vere intenzioni, che se la beva insomma. In genere io reagisco magari con una battuta, qualche volta quasi mi arrabbio. Come ieri.

 

Arrivo puntuale, alle sedici, e mentre sto per suonare al citofono arriva l’infermiera. L’ho vista solo una volta, io la riconosco, lei no. In ascensore si meraviglia perché saliamo insieme. Le dico che sono in agenda, che ho telefonato e che sono il primo. Mostra perplessità, perciò l’assicuro: “Me l’ha detto lei che sono il primo, e che lo studio apre alle sedici.†

 

Mentre apre la porta e io attendo sul pianerottolo, mi dice con noncuranza che verrà il professore Tal dei Tali, primario a Neurologia, ma che non ci metterà molto. Dice che aveva preso l’appuntamento prima di me, che non l’aveva registrato per questo forse si è dimenticata di avvisarmi. Ma i segni sul suo volto mi dicono che sta cercando il modo per dirmi qualcosa che potrebbe non piacermi, infatti non mi piace. In realtà mi sta dicendo che vuole favorire il professore, mettermi in condizioni di accettare il sorpasso sottolineando che il professore è un primario, forse è vero, ma naturalmente è ininfluente, e inventandosi che era prima di me e che si era dimenticata di avvisarmi. 

 

Arriva il professore. Sento che l’infermiera lo riceve con tanti onori e salamelecchi. S’accomodi, il dottore sarà qui tra breve. 

 

Così conosco il professore Tal dei Tali. Siamo soli, ne approfitto perché devo verificare, e vado dritto al sodo. 

 

“Mi scusi io ho un appuntamento alle quattro, lei è prima o dopo di me a parte l’essere arrivato dopo voglio dire, perché la segretaria mi diceva che…

 

Rallento a bella posta il mio modo di parlare per saggiare la sua onestà e dargli la possibilità di interrompermi ed essere sincero e onesto. Infatti lo è. Mi interrompe e conferma che sono il primo. Mi fa una bella impressione. Non così l’infermiera. Ho la conferma che è una sostenitrice dei privilegi, che vuole ingraziarsi il professore, che è stronza perché mi ha sottovalutato.

 

Quando sto con la bocca spalancata con gli strumenti e le dita del dentista che vi rovistano dentro, non faccio che definire e ridefinire il quando il come e il cosa  dirò all’infermiera prima di andarmene.

 

Prima di andar via la situazione è questa: all’ingresso dietro al bancone di una piccola reception c’è la scrivania, dove l’infermiera siede per registrare appuntamenti, scrivere le ricevute, le piccole incombenze insomma; lei è seduta e io sono al bancone. Non c’è nessun altro, il professore ha preso il mio posto dopo di me nel gabinetto del dentista e in sala d’attesa ci deve essere qualcuno. Lei sta cercando un nuovo appuntamento perché ho chiesto un giorno e un’ora precisa.

 

“Ah ecco, questo va bene. Giovedì sedici alle ore 9. Come ha chiesto.â€

 

“Bene. Adesso però dovrebbe ascoltarmi, pochi minuti.â€

 

“Mi dica.â€

 

“Per ora non ho intenzione di riferire nulla al dottore, al suo capo voglio dire, ma se lei nega quanto è accaduto sarò costretto a parlargli, perché vede se lei si comporta così con i pazienti come con me, finirà che non verrà più nessuno e questo non piacerà al suo datore di lavoro.â€

 

“Perché cosa ho fatto.†Sembra sinceramente smarrita.

 

“Le spiego. Quando siamo arrivati lei mi ha detto un bel po’ di bugie, perché voleva favorire il professore Tal dei Tali, dargli il mio posto. Ha pensato addirittura che io di fronte al fatto che lui è un primario, mi sarei intimorito. In sostanza dunque mi ha sottovalutato e questo mi ha dato molto fastidio.â€

 

Sta per parlare ma io la blocco con un gesto delicato. 

 

“Non deve dire nulla, il professore mi ha confermato che veniva dopo di me. Perciò accetto soltanto le sue scuse e l’assicurazione che non si comporterà più in questo modo con nessuno. Se è d’accordo, me ne andrò come se nulla fosse successo. Ha capito?â€

 

Mi alzo e attendo. Lei mi guarda qualche secondo, poi mormora: “Mi scusi.â€

 

La saluto e me ne vado. 

 

- Adesso dimmi papà -fa Saggina-. Perché alcune persone tendono a sottovalutare chi hanno di fronte. Se ricordo, quando ne abbiamo parlato non abbiamo approfondito questo aspetto. Mi viene in mente una scenetta dell’altro giorno a scuola, in corridoio durante la pausa. Tre insegnanti parlottavano, ma due erano abbastanza intimi, il terzo sembrava ascoltare e interveniva poco. Uno dei due a un certo punto ha fatto un gesto appena percepibile all’altro per bloccarlo perché forse stava per dire qualcosa che il terzo non doveva sapere. E io preoccupata e sorpresa per quel gesto: Quello se ne è accorto, ho pensato, e credo proprio che si sia accorto perché secondi dopo se ne è andato senza salutarli. E i due non si sono scomposti.-

 

- Se io sottovaluto te, Saggina mia, per esempio, vuol dire, e pare ovvio, che sopravvaluto me. Ora alcuni hanno proprio bisogno di sentirsi più, più dell’altro, più in qualcosa o in tutto forse,  e tradiscono così inconsapevolmente il timore di essere e sentirsi di meno.

 

 



 

 

 

                               Gli assilli di Saggina

       

                                         Maurizio Mazzotta

 

 

Saggina è una bambina molto saggia, per questo ha il soprannome di Saggina. Ha dieci anni, alta e magra come le graminacee, e i capelli hanno il colore del grano. Spesso dice cose assennate. Il padre, un botanico, la chiama così perché veramente la sua bambina ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee, il cui fusto sottile è pieno di midollo. Saggina ci osserva, curiosa, poi con i suoi quesiti “ci mette allo specchioâ€; praticamente ci fa meditare sui nostri comportamenti: modi di dire, gesti, mimiche, posture; sul nostro modo di porci in relazione con gli altri, con noi stessi, con gli oggetti.

 

Saggina e le persone poco espansive 

 

 â€œPapà è da tempo che voglio chiederti una cosa, non mi è facile, ma adesso ho deciso.

 C’è una differenza che non capisco tra te e la mamma. Tu, quando io faccio una cosa buona, qualunque cosa, come l’altro ieri che ho preso dieci al compito di matematica, tu mi dici “brava†più volte, mi abbracci, mi baci e mi metti la mano sulla testa che mi piace tanto; la mamma invece sorride un poco e dice OK. Lo so che la mamma mi vuole bene, ma è come se tu me ne volessi tanto di più e… mi piace che me lo dici pure.â€

Il padre che è biologo e botanico, abituato a interagire con “cose†che non fanno domande, è certamente contento della curiosità della figlia, ma prova sempre alle domande di Saggina come se qualcuno lo mettesse al muro, questa volta è peggio: si sente inchiodato, incapace di muoversi, tanto meno di pensare. Per via del confronto e della spiegazione che la bambina esige: confronto tra lui padre e la moglie-madre.

“È… è perché siamo diversi, le persone non sono uguali, c’è chi è più espansivo, come in questo caso, e chi meno, la mamma però ti vuole bene come me.â€

“Lo so papà, però non hai risposto.â€

Il padre si arrende di botto. “La risposta è complessa. Devo pensarci. Cercherò di risponderti. Anzi non ti nascondo, chiederò ad Armando. Lui è psicologo e se necessario ti farò spiegare da lui. Chi meglio!â€

Due giorni dopo, tocca a lui perché Armando è molto occupato.

“Vedi Saggina, molte persone temono di esporre i propri sentimenti, ritengono che la manifestazione dei sentimenti, come la carezza, il bacio, l’abbraccio riveli debolezza e fragilità e per questo carezze e baci non devono essere usati specialmente con i propri figli, che invece hanno bisogno di diventare forti e in grado di affrontare le avversità della vita. Armando, che conosci assai bene, ha aggiunto pure che molti si comportano in questo modo semplicemente perché hanno avuto genitori molto poco espansivi. Che vuol dire che hanno appreso un modello e si comportano allo stesso modo con i loro figli, e questo è sicuramente il caso della mamma, che mi ha raccontato quanto sua madre, cioè tua nonna,  era fredda, sì, ricordo, ha detto proprio fredda.â€

“E io pure dico che lei è fredda, tu invece sei caldo e lei è fredda, ma non è una bella cosa, mi pare.â€

Porca miseria, pensa il padre, e adesso che dico? 

“Sì forse, si può dire, però lei ti vuole bene ugualmente, questo è importante.â€

“Ma non me lo dice, e io posso pure pensare che non me ne vuole… di bene.â€

“Vuoi che finisca il discorso o noâ€. Il padre cerca di distrarla, sa che non riuscirà, e finge si essersi spazientito.

“Armando ha precisato che le persone che temono di dimostrare affetto, premura  o interesse per gli altri sono assai limitati nel comunicare e creano disturbo proprio a quelli che amano.  Alcuni arrivano non solo a evitare le manifestazioni dell’affetto ma addirittura inibiscono i sentimenti. Costoro pensano in questo modo di difendersi da se stessi, insomma temono le emozioni, temono di perdere il controllo di sé. Altri ancora nemmeno le riconoscono le emozioni e non sanno esprimerle per niente, sono definiti “alessitimiciâ€: la “a†vuol dire “mancanzaâ€, “lexisâ€-“parolaâ€, “thymos†-  â€œemozione†e questa è una patologia, perché l’alessitimia crea una infinità di problemi quando si sta insieme agli altri: la comunicazione svanisce e chi si trova in mezzo soffre maledettamente. Non è il caso nostro, stai tranquilla.â€

“Se anche tu fossi come la mamma, penso proprio che da grande diventerei una alessitimica. Meno male che non è così. Io da grande abbraccerò, accarezzerò e riempirò di baci tutti quelli che conosco per non farli diventare freddi o alessitimici.â€

Il padre, atterrito. “Mi vuoi far finire prima di arrivare alle conclusioni?â€

“Sì, papà, scusa.â€

“C’è qualcosa di importante in tutt’altra direzione. Apparentemente meno grave, ma è bene sapere che ci sono persone, diciamo normali, capaci di sentimenti e in grado di esprimere le emozioni, le quali (semplicemente!) “non vogliono dare soddisfazione†a chi ha fatto qualcosa di buono, non vogliono dimostrare ammirazione verso chi è bravo. Questo accade più spesso purtroppo proprio tra amici e conoscenti e chi ha fatto qualcosa di buono si mortifica perché non gli viene riconosciuto il risultato del suo lavoro e del suo impegno. Adesso una domanda: la mamma anche se non ti applaude, ti dice perlomeno OK e siamo certi che ti vuole bene, ma dimmi: chi ignora completamente l’amico che ha realizzato qualcosa di buono secondo te gli vuole bene?â€

“No, Saggina quasi urla, io dico che è cattivo perché l’amico si aspetta un riconoscimento e rimane male se nessuno gli dice niente.â€

“Perciò da queste persone devi stare alla larga. Adesso, figlietta mia, non ho altro da dire, ho finito.†

E Saggina salta al collo del padre mormorando un dolcissimo: “Grazie, papàâ€.

 

 



 

Saggina e le bugie

 

Saggina è una bambina di 9 anni molto saggia, ha dieci anni e spesso dice cose assennate. Il padre, Karl  Sarc, un botanico tedesco che vive in Italia, la chiama così perché è alta e magra come le graminacee e soprattutto perché  ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee che hanno il  fusto sottile pieno di midollo. Interroga spesso il padre, molto paziente, tranne qualche volta perché Saggina è insistente e poi tende a scoprire gli altarini, senza riguardo per nessuno. Questa mattina ha cominciato così. 

 

-Ho scoperto papà che le bugie le dicono anche gli adulti, insomma proprio chi dice che non si devono dire.

-Certamente piccola, le dicono quasi tutti.

-PAUSA. E tu papà stai in quel “quasiâ€.

-Può darsi, è umano.

-PAUSA E tu sei umano papà. Questa mattina ne hai detta una grossa grossa perché era doppia.

-E cosa avrò detto mai!

-La mamma, vedendo la scatola dei formaggi sul tavolo e non sul frigo, ti ha chiesto quanto formaggio avevi mangiato. Lo sai, siamo preoccupate, ti fa male. 

-E io che ho detto?

-Che non ne avevi mangiato, invece ti avevo visto, tu non te ne sei accorto. Era un bel pezzo, di quello stagionato che ti piace molto e senza tarallini.

-Oddio! Non me ne sono accorto.

-Sì papà, te ne sei accorto. E hai aggiunto un’altra bugia, che avevi preso la scatola per controllare i formaggi, se occorreva comprarne altri, che la scatola si stava svuotando.

-Non c’è nulla da dire figlietta mia: il formaggio mi imbugiardisce.

-Già papà, sei pericolosamente umano. PAUSA Io vorrei sapere una cosa papà: c’è qualche possibilità di capire quando una persona dice bugie? 

-PAUSA

-Papà?!

-Sto pensando. Sì. Giusto l’altro giorno leggevo sul giornale di una intervista. Uno psicologo, consulente della polizia, veniva intervistato, diceva una cosa molto interessante, che le indagini avrebbero svelato i significati di alcuni linguaggi del corpo. Diceva che noi esprimiamo con il volto una cinquantina di modi di sorridere, ciascuno con un particolare messaggio. E aggiungeva che quando il sorriso è sincero coinvolge i muscoli della bocca e quelli degli occhi. Il muscolo zigomatico si contrae e solleva gli angoli della bocca inclinandoli verso l’alto; si contrae anche il muscolo dell'occhio e si formano le “zampe di gallinaâ€: tutto ciò, precisava,  non è presente nel falso sorriso; in più il sorriso falso scompare dal volto in modo troppo improvviso. 

Diceva altro. Le menzogne sarebbero accompagnate da gesti e manipolazioni, perché chi mente, controlla il proprio corpo e gesticola meno del solito, teme insomma di tradirsi con l’emotività, intanto tende a scaricare il nervosismo manipolando oggetti, li schiaccia, li stritola. È tradito anche dai piedi e dalle gambe, spesso  i talloni vengono sollevati e il movimento si trasmette alle gambe e alle cosce. E poi concludeva che       il bugiardo per rendere vera la bugia spiega cose non richieste, amplia il discorso e aggiunge particolari a ciò che dice.

-  Un po’ come hai fatto tu, papà.

-  Sì, un po’ come ho fatto io, è vero.

 

Il botanico ingoia l’amaro della figuraccia con la filglietta. Però, bisogna dirlo, è stato onesto, avrebbe potuto riferire meno a Saggina, che come vediamo è più interessata a  conoscere e sapere che a rimproverare chi lo merita.

 

18.01.23

 

 

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Saggina: chi parla e chi ascolta

 

Saggina è una bambina molto saggia, ha dieci anni e spesso dice cose assennate. Il padre, Artemio Grimaldi un botanico  che vive in Italia, 

 

L'altro giorno Saggina ha detto al padre:

Papà, tu mi porti spesso ad ascoltare persone che parlano ad altre, le quali dovrebbero ascoltare ciò che esse dicono. Ed è qui papà che mi sembra strana una cosa: mi sembra che spesso chi parla non si preoccupi se le persone ascoltano. Insomma come se chi parla si accontenti di ascoltare se stesso. Molti addirittura hanno sul tavolo il microfono e non lo usano o non lo sanno usare. Papà a volte non capisco come si comportano i grandi.

Il padre l'ha guardata intensamente e poi:

Figlietta mia, parlare non è soltanto un flusso continuo di parole; è di più, perché è anche controllo di questo flusso. Quando si parla si dovrebbe rispettare chi ascolta e dunque è vero ciò che dici: chi parla dovrebbe preoccuparsi di chi ascolta, non dovrebbe compiacersi della sua voce e di ciò che dice, tantomeno abusare della pazienza dell’altro.  Il controllo è importante anche perché chi parla non dovrebbe lasciarsi coinvolgere emotivamente da ciò che dice, se si lascia coinvolgere perde  di vista la situazione. Spiego meglio: chi parla tiene presente le condizioni dell’altro e cioè innanzitutto la sua possibilità e la sua capacità di ascoltare e di comprendere linguaggio e contenuti, ancora di più, la sua disponibilità ad ascoltare, quindi l’attenzione. Chi parla deve considerare la possibilità che gli schemi di riferimento di chi ascolta possano essere differenti dai suoi. 

Ecco un esempio: Due persone in treno guardano dal finestrino un panorama ed esclamano insieme: Che meraviglia! Così cominciano a parlare, ma ciascuno dei due non capisce ciò che l’altro sta dicendo e nemmeno si accorge di non comprendere. Per l’urgenza di esprimere i loro pensieri, le idee scaturite alla vista di quel panorama, le emozioni che provano, non si sono nemmeno presentati: uno è un pittore, l’altro è un costruttore. Quando tutti e due commentano la bellezza del panorama, sia pure con la stessa frase, ciascuno pensa a cose completamente diverse da quelle dell’altro. 

Analogamente, figlietta cara, ascoltare non è presenza muta, non è passività, è attenzione. Per questo, come il parlante,  chi ascolta dovrebbe preoccuparsi che non ci siano disturbi alla comunicazione; non è impaziente di dire ciò che pensa, di contestare o ribattere, togliere o aggiungere, anche questo sarebbe disturbo alla comunicazione; cerca piuttosto di entrare nella testa dell’altro, e si decentra, esce fuori da sé stesso per accogliere i nuovi contenuti, ideativi ed emotivi, che l’ altro comunica. In seguito, se c’è l’occasione e il bisogno, dirà i suoi punti di vista e sarà lui a parlare e colui che prima parlava si porrà in ascolto. 

Ci sono due grandi categorie, Saggina,  di comunicatori inefficienti: quelli che non sanno ascoltare e coloro che non sanno parlare. Alla lunga accadrà che chi non sa ascoltare finirà che  non saprà nemmeno parlare e chi non sa parlare finirà che non saprà nemmeno ascoltare.

Il discorso, figlietta cara, si dilata e dovrebbe essere approfondito. La situazione più normale per una comunicazione efficace ed efficiente non è il monologo ma è il dialogo. Il dialogo è scambio e lo scambio è un bisogno di tutti gli esseri viventi, ovvio che per l’uomo è uno dei bisogni primari. Tuttavia il monologo è utile, ma chi lo gestisce dimentica a quanto pare i bisogni e i desideri di chi ascolta e  molto spesso si comporta in modo assurdo, addirittura  contro i suoi stessi interessi, come dicevi tu, e non gli passa per la testa se chi ascolta è in grado si ascoltare, in tutti i sensi: orecchio, aspettative, schemi di riferimento.

Credo che si possa chiudere il discorso così:

CHI PARLA MOLTO FINIRA' PER ASCOLTARE SOLTANTO SE STESSO. E CHI NON FA CHE ASCOLTARE FINIRA' PER PARLARE SOLTANTO A SE STESSO

 

06.05.22 maurimaz

 

 

  



     

 

Gli assilli di Saggina: Un problema serio: chi siamo?

 

     

Saggina è una bambina molto saggia, per questo ha il soprannome di Saggina. Ha dieci anni, alta e magra come le graminacee, e i capelli hanno il colore del grano. Spesso dice cose assennate. Il padre, un botanico, la chiama così perché veramente la sua bambina ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee, il cui fusto sottile è pieno di midollo. Saggina ci osserva, curiosa, poi con i suoi quesiti “ci mette allo specchioâ€, praticamente ci fa meditare sui nostri comportamenti: modi di dire, gesti, mimiche, posture; sul nostro modo di porci in relazione con gli altri, con noi stessi, con gli oggetti.

 

 

 

-Papà, se una persona mi dice: “Chi sei?†Io non so cosa rispondere.

 

Se dico: Sono Saggina, come mi chiama papà, secondo me non dico niente. Forse direi qualcosa se spiegassi perché mi chiami così, ma se lo dico in due parole, sarebbe come dire niente; se con molte parole sarebbe complicato. Insomma penso che sia difficile se non impossibile rispondere a una domanda del genere.

 

-Tesoro mio, mi fai certe domande!! Io non sono psicologo, sono un botanico… --Ah no papà, lo interrompe Saggina, non basta dire quello che fai, la domanda è chi sei e non cosa fai…

 

-Ma io non volevo…

 

E cade il silenzio tra i due, il padre è immobile e guarda la figlia. La figlia risponde allo sguardo, ma scuote i suoi bei capelli in segno di diniego.

 

Poi all’improvviso il padre: 

 

-Ah sì, esclama, come se dalla testa fosse scaturito un ricordo. Sì, ho letto di recente qualcuno che faceva una analisi del chi siamo. Sì sì, sulla rivista Il verde melograno. Nello studio, vai nello studio, forse la trovi nella libreria piccola.-

 

Poco dopo il padre contento sfoglia, trova e legge: 

 

-Il titolo è La coscienza di sé di Artemio Grimaldi, uno psicologo che scrive spesso su questa rivista. Leggo. Il discorso sul “Chi sono†presenta delle sfumature, dei distinguo, dei punti di vista. Tu. Saggina mia, me lo hai fatto venire in mente perché comincia proprio Io sono ciò che faccio. Accade a volte, dice, che se chiediamo a qualcuno: “Chi sei?â€, di avere una risposta del tipo: “sono avvocatoâ€, “sono impiegato del comuneâ€, “sono pittoreâ€. L’individuo si identifica con ciò che fa. La consapevolezza di sé non va al di là di ciò che il soggetto fa per almeno un terzo delle ore del giorno ma con una tale risposta si dimostra di avere una consapevolezza di sé assai limitata. Ah! Dunque io avrei una coscienza di me limitata…cominciamo bene, non ricordavo questa frase. Senti senti,  paragona fisici e ingegneri, come vestono. All’università le facoltà sono vicine e gli studenti si rivelano da come sono vestiti: i fisici come adolescenti: jeans, scarponcini, gli ingegneri come manager in carriera: cravatta, giacca e borsa.

 

-Poi continuava. Io sono come appaio, che è tipico della nostra “civiltà†dell’immagine! Il punto di vista si ribalta, ci mettiamo dalla parte di quelli che ci osservano. E costoro ci fanno da guida, ci indicano la strada: se vuoi essere qualcuno devi esporti, mostrarti: se ci esponiamo siamo giustificati a dare un’immagine di noi stessi anche non corrispondente al vero. Questo è stato sempre il problema dei politici e di tutti coloro che devono affrontare un pubblico. È una mistificazione micidiale per le conseguenze che produce. Intanto pare sia quella vincente, in quanto quella che convince di più. Ne abbiamo esempi in gran quantità in questi nostri anni.

 

Io sono come gli altri hanno voluto che fossi. Si tratta dell’effetto da aspettativa. Alcune persone hanno finito per essere ciò che gli altri si aspettavano da loro. Se tuo padre ha fiducia in te, tu diventerai qualcuno; se l’insegnante è convinto che sei bravo, tu lo diventerai. Purtroppo accade anche il contrario.

 

Forse è vero, ascolta. Abbiamo un esempio in famiglia: mio padre cioè tuo nonno divenne architetto perché mio nonno, cioè il tuo bisnonno, gli dette il nome di Giuseppe Cino, architetto e scultore leccese della seconda metà del Seicento. Un caso? 

 

Riprendo a leggere. Io sono ciò che vorrei essere. Ora qualcosa di più interessante, anche se sembra falso. Perché è vero che io sono le mie illusioni, le mie esigenze insoddisfatte. Forse questa è la risposta più coerente alla domanda “Chi sei?â€. Deve essere intesa però come risposta dinamica, una risposta che considera il nostro “tendere aâ€. Naturalmente non una risposta infantile o folle, ma una risposta che tiene conto dei nostri progetti di vita, della tensione verso gli scopi che ci siamo prefissi. Una siffatta risposta ha anche un merito straordinario, quello di darci consapevolezza di noi stessi, capacità di individuare la distanza tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. 

 

-Fermiamoci un attimo, dice il botanico che comincia a stancarsi. Facciamo una pausa.-

 

Il padre si alza perché ha la gola secca. La bambina lo guarda pensierosa.

 

-Adesso ho da dire qualcosa io, dice il padre tornando dalla cucina. Ti ringrazio, figlietta mia, per le tue richieste, che a volte mi spaventano perché temo di non saperti rispondere. Hai prodotto oggi un bel contatto tra noi. E’ merito anche tuo, non soltanto di questo scritto che abbiamo ritrovato ed è molto  interessante. Devi sapere che da giovane percorrevo spesso strade e strade per via delle consulenze, andavo dove mi si chiedeva. Bene! In quei tragitti si svegliava una coscienza di me che acquistava sempre più forza; diventavano presenti e reali i desideri, gli incubi, le speranze, le certezze. Le storie si accavallano e i momenti passati si fondevano nel momento presente. Nomi e date si confondevano, ciò che restava intatto ero io, fortemente io, dentro una scatola di metallo, sempre in un tratto qualsiasi di una strada qualsiasi, ma tutte piene di sogni e di voglia di fare.-

 

Cade per la seconda volta il silenzio e la bambina si avvicina, lo abbraccia e lo stringe a sé e il padre risponde, apre le braccia e la chiude al petto.

 

-Non è finito però piccola mia,  Artemio Grimaldi continua. Sembra voler concludere con se stesso e si chiede: Ma io so chi sono? Quando la prima volta si definì in greco, in latino e in tutte le lingue quel “conosci te stessoâ€, si puntava la conoscenza di sé su se stessi. Un conto è la conoscenza di noi da parte dell’altro, un conto è che siamo uno o molti: uno, nessuno, centomila per Piramdello, per cui l’uno si perde. La domanda è: a parte gli altri, il nostro UNO, cioè  la coscienza di noi stessi è così forte da restare in piedi? Non è facile rispondere. Di sicuro tutti dobbiamo ammettere che la conoscenza di sé è un grosso problema. Lo dimostra il fatto che il monito a conoscere noi stessi viene da civiltà di grande spessore. Tuttavia la conoscenza di sé, meglio dire la consapevolezza di sé, se da una parte resta una chimera, dall’altra sembra rimanere in piedi. Rimane in piedi saldamente quando io sono emotivamente convinto di essere vivo e consapevole di ciò che mi circonda e di ciò che mi accade. Rimane in piedi saldamente anche quando percorro il mio tempo all’indietro e penso alle mie azioni, ai miei pensieri, alle emozioni vissute, ancora vive al ricordo. 

 

Ti riferisco a conclusione una cosa straordinaria, paradossale, che è capitata a me. Io ho sofferto molto di emicrania, ogni mattina l’emicrania si svegliava insieme a me fino a che non seguì un periodo in cui addirittura dimenticai il mal di testa. Sembrava proprio che il disturbo mi avesse abbandonato, che fossi guarito. Ma una certa mattina mi svegliai -fui svegliato da una pioggia violenta che batteva i vetri dell’alba-. Stavo bene come ormai mi accadeva da tempo, eppure ecco improvvisa come una nostalgia del dolore. Assurdo certamente: stavo scoprendo che il dolore mi dava, mi aveva dato, una forte coscienza di me. Che l’emicrania mi aveva reso presente a me stesso. Era così infatti: mi sentivo, al tempo dell’emicrania, quando scoppiava la cefalea, più vivo, più consapevole. Insomma scoprì quella mattina la positività del dolore e ne avevo nostalgia.- 

 

-Pensa un po’, Saggina. Avevo nostalgia del dolore!-

 

-Vuol dire che dobbiamo soffrire per sapere chi siamo?-, dice la bambina scettica.

 

Il padre medita poi, convinto: -No, assolutamente no.  Voglio dire che quando l’emicrania mi aveva abbandonato, mi sono lasciato distrarre dagli eventi. E’ importante:  non dobbiamo distrarci da ciò che facciamo, ascoltiamo, vediamo. Se vogliamo sapere chi siamo, dobbiamo essere più spesso presenti a noi stessi.

 

 


 


 

GLI ASSILLI DI SAGGINA

             

                       Maurizio Mazzotta

 

Saggina è una bambina molto saggia, per questo ha il soprannome di Saggina. Ha dieci anni, alta e magra come le graminacee, e i capelli hanno il colore del grano. Spesso dice cose assennate. Il padre, un botanico, la chiama così perché veramente la sua bambina ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee, il cui fusto sottile è pieno di midollo. Saggina ci osserva, curiosa, poi con i suoi quesiti “ci mette allo specchioâ€; praticamente ci fa meditare sui nostri comportamenti: modi di dire, gesti, mimiche, posture; sul nostro modo di porci in relazione con gli altri, con noi stessi, con gli oggetti.

             

                   Simpatia e empatia 1

 

Saggina con la tazzina di caffè irrompe nel laboratorio del padre:

-Oggi è importante, mi devi dire che differenza tra simpatia e empatia-

-Saggina, sto lavorando e poi questi sono argomenti di Mauro. Vai da lui-

- Non posso andare sempre da lui, papà. Quello lavora-

Il padre la guarda storto e lei subito: -Il signor Mauro volevo dire-

-Perché, io gioco?-

-Il dottor Mauro lavora con le persone, tu stai solo, io ti poro il caffè e ti riposi e puoi parlarmi-

-Tu sei una rompiballe, lo sai-

-Sì papà lo so, me lo dici spesso-                                                    

-Giusto il tempo del caffè, poi se vuoi vai da Mauro per approfondire-

-Se prendiamo in considerazione l’origine delle due parole, la differenza è minima e ci confondiamo; comunque riporto l’etimologia, per dovere.

Avere simpatia per qualcuno, secondo l’etimologia, significa sentire, emozionarsi insieme, “con†(sin), stare sullo stesso piano emotivo. Provare empatia, sempre secondo l’etimologia, è soffrire “dentro†(en), cioè essere in grado di provare la particolare condizione emotiva che sta provando l’altro.

Se invece consideriamo l’uso cui siamo abituati e ancora di più gli studi fatti in particolare sull’empatia, le cose cambiano profondamente.

Sui dizionari si legge: avere simpatia significa avere attrazione e inclinazione istintiva verso persone o cose; significa essere orientato affettivamente verso una persona al punto che se questa persona si è comportata in un modo che in genere non accettiamo siamo portati a giustificarla, insomma abbiamo un occhio di riguardo, come si dice. La simpatia dunque implica un sentire positivo verso una determinata persona in quanto si avvertono affinità che possono essere di qualsiasi tipo. Avere delle simpatie, provare simpatia per qualcuno, è molto comune, quasi di tutti; ma - e questo è importante - è la persona globalmente presa che ci attrae e possiamo pure non conoscerla questa persona, può essere uno che vediamo per la prima volta, o un personaggio della televisione.  La simpatia in conclusione parte da noi verso un altro in particolare e quest’altro non corrisponde, forse non ci ha mai visto. Dunque Ã¨ un rapportarsi con l’altro  superficialmente.

L’empatia riguarda invece una capacità, quella di fare propria l’emozione dell’altro e in questo modo mettersi in comunicazione intensa con lui, che ha conseguenze molto importanti, in quanto in noi nasce con l’andar del tempo la capacità di ascoltare; quanto all’altro, egli scopre di non essere solo. Chi si è trovato in situazioni del genere sa quanto fa bene scoprire di non essere solo (… aver compagno al duol, scema la pena, recita l’antico adagio).  

La differenza tra simpatia ed empatia risulta abissale se consideriamo che si può provare simpatia, come già detto, per una persona anche se non la conosciamo  o la

conosciamo appena, come può essere un personaggio della politica, dell’arte, dello sport eccetera; mentre l’empatia si realizza solo ed esclusivamente in un contesto comunicativo. L’empatia per forza doveva svegliare l’interesse degli psicologi, che hanno studiato le condizioni che permettono l’insorgere di un comportamento empatico.

E con questo ti passo a Mauro. Se vuoi approfondire vai da lui, io non so altro e per lui invece è il suo mestiere.

 

 




 

 Gli assilli di Saggina

Saggina è una bambina molto saggia, per questo ha il soprannome di Saggina.

 

Simpatia e empatia 2

 

Il dottor Mauro questa volta ha posto sul tavolino un vassoio di pasticcini, di quelli che trattengono gli occhi, papà, a lungo,  finché non ha detto: “Sono per teâ€, poi ha aggiunto “Per noiâ€.

 

SI è seduto e ha cominciato…a mangiare. Dopo il secondo pasticcino ha iniziato di botto, senza una introduzione…gli avevi accennato tu cosa mi sarei aspettato da lui, vero? 

 

-Fino a qualche decennio fa, tra gli studiosi, prevaleva un’interpretazione dell’empatia secondo la quale alla base di tale capacità ci sarebbe la conoscenza e la comprensione delle emozioni. Oggi prevale, supportata dalle ricerche, un’interpretazione secondo la quale alla base c’è invece proprio la capacità di emozionarsi, capacità controllata dalla conoscenza delle emozioni. In sostanza le indagini hanno sottolineato che il soggetto empatico è soprattutto un individuo affettivo ed emotivo, uno che sperimenta le emozioni e quindi le conosce e le comprende. 

 

Non tutti hanno capacità empatiche, e tali capacità sono pure a differenti livelli, si pongono cioè lungo un continuo di coscienza. In questo continuo ciò che varia non è l’intensità emotiva, ma la consapevolezza di ciò che sta accadendo. Questo è veramente interessante: un continuo di intensità o di forza sarebbe ovvio, invece no, si tratta di un continuo che procede verso una sempre maggiore coscienza di ciò che accade a noi e all’altro. Sono stato chiaro?-

 

-Sì, dottore, vuole dire che non ci sono persone più empatiche di altre, ma più consapevoli di quello che provano e fanno provare all’altro.-

 

-E allora scusa che vieni a fare, sai tutto puoi andare, ci vediamo- 

 

- Ma se l’ha detto lei appena adesso.-

 

- Sì, ma non si capisce così facilmente. No, non mi piaci, tu sei troppo intelligente anche per uno psicologo-

 

Sapevo che stava scherzando, papà,  e allora:

 

-No dottore la prego. Mi pace un casino, poi mi sono corretta, voglio dire mi piace tanto quando spiega…

 

Il dottor Mauro mi ha  guardato con una strana espressione, come posso dire… con un’espressione severamente buffa, e poi: 

 

-Vuoi la solita aranciata?-

 

Torna e prima ancora di sedersi comincia:

 

-In partenza c’è il “contagio emotivo†- come è stato definito,    caratterizzato dall’assenza di quelle conoscenze che permettono di comprendere e mediare tra la situazione nostra e quella dell’altro, con il rischio di una mancanza di separazione tra sé e l’altro. Insomma ci identifichiamo nel suo disagio o disturbo o sofferenza, in quello che prova  la persona con la quale siamo in contatto, ci identifichiamo totalmente senza sapere perché. E per esempio se sta soffrendo e piange piangiamo veramente anche noi.. Accade spesso ad alcune persone quando accade qualcosa di tragico. Per esempio è morto il marito, la moglie piange e si dispera e l’amica insieme a lei: viene  contagiata e piange.

 

-Con l’esperienza c’è chi  arriva a un alto grado di mediazione della conoscenza e di differenziazione tra sé e l’altro. A questo punto la persona capace di empatia è in grado pure di non identificarsi totalmente in colui che ha di fronte, in sostanza è capace di uscir fuori dalla condizione di intensa emozione che vive insieme all’altro. Se così non fosse una persona empatica, assumerebbe su di sé il male del mondo e impazzirebbe.   

 

-Riprendendo il discorso sul “contagio emotivoâ€, dato che è la base, si può affermare che è tipico della prima infanzia, può ricomparire in qualsiasi età ogniqualvolta i confini tra sé e l’altro si riducono (per esempio la condizione di innamoramento), si manifesta in tutte le culture (i riti hanno lo scopo di facilitare il contagio), permette di reagire in modo automatico alle esigenze dei propri simili e degli esseri viventi in generale, come quando soccorriamo cani e gatti, assai vicini a noi quanto a emotività. 

 

-Ma chi non ha un briciolo di empatia non si commuove mai.Per mesi ho cercato di educare a questo primo livello di empatia un contadino che teneva il suo cane alla catena. Gli ho spiegato in tutti i modi che il cane vive le emozioni come noi, gli ho spiegato anche perché e come accade. Lui mi assicurava che lo liberava quando si tratteneva in campagna. Ma molto spesso, d’inverno, si tratteneva pochissimo. Infine l’ho spiato, nascondendomi dietro le viti o mimetizzandomi con i ficodindia, l’ho osservato a lungo, perciò sono certo di quello che dico: non aveva capito o si rifiutava di capire i miei discorsi. E l’altro giorno mi sono detto: qui ci vuole il contagio forzato (un tipo di empatia che mi sono inventato lì per lì). Con un colpo di mano e col nastro adesivo l’ho immobilizzato. La faccio breve: ho liberato il cane, ho messo il contadino al posto del cane.  

 

Lo so, a volte sono duro nelle strategie educative, ma solo quando non c’è altro da fare e comunque spiego sempre il perché… Sono consapevole del rischio che quest’uomo corre, ma mi convinco: come cane sarà migliore quanto a capacità empatiche. 

 

-Dottore mi prende in giro, è tutto inventato, però la storia mi è piaciuta, secondo me a volte il contagio forzato ci vuole proprio.

 

 


 


 

 

                                     GLI ASSILLI DI SAGGINA   

 

       Maurizio Mazzotta

 

 

 

Saggina è una bambina molto saggia, per questo ha il soprannome di Saggina. Ha dieci anni, alta e magra come le graminacee,  e i capelli hanno il colore del grano. Spesso dice cose assennate. Il padre, un botanico, la chiama così perché veramente la sua bambina ha il cervello pieno di pensieri, come le graminacee, il cui fusto sottile è pieno di midollo. Saggina ci osserva, curiosa, poi con i suoi quesiti “ci mette allo specchioâ€, praticamente ci fa meditare sui nostri comportamenti: modi di dire, gesti, mimiche, posture; sul nostro modo di porci in relazione con gli altri, con noi stessi, con gli oggetti.

 

       

I massmedia e la pubblicità 

 

 

E l’altro giorno Saggina ha chiesto al padre:

 

   - Papà, quando guardo la televisione, sento che qualcosa mi disturba, poi l’altro giorno ho capito: l’intervistatore era alla mia sinistra e chi rispondeva alla mia destra, ma la persona che rispondeva sembrava che parlasse a me. Ed è questo che mi disturbava, perché invece di rispondere guardando chi lo stava interrogando, si rivolgeva a me che stavo a casa.  

 

- Accade peggio, Saggina, accade peggio! Quando guardi un’intervista e hai di fronte tutti e due, intervistato e giornalista, la situazione diventa buffa: uno fa la domanda e l’altro risponde rivolto a un pubblico invisibile e anonimo, e naturalmente si sforza perché è attratto da chi gli sta a fianco e gli ha posto la questione e invece deve guardare verso di te, che stai a casa pure se non ti vede. L’altro giorno la situazione era ancora più complessa: il conduttore, l’ospite e dietro l’ospite una dozzina di persone che assistevano, io fuori dal campo, a casa mia a guardare il tutto. Se era uno dei dodici presenti a porre quesiti all’ospite, questi, costretto dal conduttore, rispondeva a chi gli stava alle spalle guardando davanti a sé, ovviamente torcendosi da disperato.

 

Questa assurda richiesta di parlare sempre e comunque  allo spettatore è ridicola. Si accettava all’inizio, quando è nata la televisione e gli spettatori erano stralunati, ma oggi sono supercritici, ovvero scafati e i registi e i produttori televisivi dovrebbero tenerne conto e invece sono ancorati a un vecchio diktat televisivo. 

 

Cara bambina mia bellissima, osservatrice acuta, prima o poi scoprirai altre cose nel mondo dei massmedia. C’è altro, più grave, cui la gente si abitua,  che riguarda il contenuto di ciò che viene trasmesso. Dovremmo sempre chiederci, anche noi, cosa c’è dietro la stupidità dei programmi televisivi, che però a volte è solo apparente? Saremmo più vigili a vantaggio anche di un’autonomia di giudizio.

 

Non mi riferisco alla TV spazzatura né ai talk show, dove si litiga a bella posta per fare audience, penso piuttosto alla bruttezza delle “piccole coseâ€, per esempio alla pubblicità, con la mania di umanizzare tutto, non solo animali, anche gli oggetti: dalla goccia d’acqua alle pompe di benzina, alla polvere che si allontana depressa dalla casa perché il nuovo prodotto l’ha cacciata via. Non mi disturba l’oggetto che parla, sia chiaro, se lo spot non mi convince lo reputo idiota, altrimenti è OK. L’altra sera una buccia di banana si comportava come una persona, non parlava, mimava, ironica, simpatica, ha detto tante cose, bel disegno, ottima grafica, uno spot da premio. La gran parte della pubblicità crea bambini stupidi. Ricordo perfettamente un evento, ben orchestrato che rese cretini piccoli e grandi. Credo che sia stato censurato, perché era una modalità peraltro originala di truffa. 

 

Apparentemente venivano posti quesiti la cui risposta spesso era ovvia. Si presentava un invito a rispondere, magari a indovinare  la risposta a una domanda  del tipo: il cane presentato è un dalmata o un mastino? La Carrà si chiama  Raffaella o Giovanna? Il mancino usa la sinistra o la destra?

 

Al termine degli indovinelli si concludeva: TELEFONATE al 481** - SARETE SORTEGGIATI, quindi SI PROSPETTAVANO VINCITE ALLETTANTI. Funzionava, infatti è durato un bel po’. E intanto per ciascuna telefonata qualcuno incassava soldi. Un modo semplice per farli: si attira l’attenzione su un quesito semplice, che serve invece per fare usare il telefono. il fatto che poi si è sorteggiati passa in secondo piano. Saranno stati bambini (mi auguro) a precipitarsi al telefono, e le mamme: ma sì bravo, prova. 

 

Ah la TV! Truffe ed errori d’ogni tipo si sprecano e la lingua italiana si involve. Senti questa, piccola di papà. Protagonisti sono una dentiera e una signora.

 

- Sì ho capito papà, l’altro ieri quella signora! Quella della pubblicità della dentiera, e c’era una fetta di torta. Una sola. La signora dice aprendo la bocca e mostrando la dentiera: “Di fronte a una fetta di torta me ne mangio dueâ€. Come faceva a mangiarne due, se ne aveva di fronte una sola!?


 

 

 

 

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